Il legislatore ha voluto tutelare lo posizione dei familiari dell'imprenditore che lavorino nell'ambito della sua impresa riconoscendo loro una serie di diritti che, in virtù del rapporto instaurato tra imprenditore e collaboratori, non sarebbero altrimenti azionabili. E’ previsto il loro consenso, e ad essi spetta una parte dei risultati economici ottenuti dall'impresa con il loro apporto di lavoro. Spesso, comunque, si tratta di familiari che condividono e sostengono l'iniziativa dell'imprenditore che vuole realizzare un patto di famiglia.
Se si tratta di società, occorre tenere in considerazione sia la legge (il codice civile) sia i patti sociali o lo statuto. Ad esempio, nelle società semplici e in nome collettivo per il trasferimento delle quote occorre il consenso di tutti i soci come richiesto dall'art. 2252 c.c., sempre che non sia diversamente convenuto; nelle s.a.s. per la quota del socio accomandante occorre il consenso di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale ex art. 2322 c.c., salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo. Per le società di capitali, occorre far riferimento all'art. 2355-bis c.c. per le s.p.a., all'art. 2469 c.c. per le s.r.l. e agli artt. 2457 e 2460 c.c. per le s.a.p.a.. In sintesi: non è possibile agire con il Patto di famiglia se non si rispettano le norme relative all'impresa familiare, essendo tutelata la posizione del familiare che lavora in azienda, e gli accordi che sono alla base delle società che gestiscono l'impresa.
In altri termini, i soci dell'imprenditore non sono tenuti a rispettare il patto se non sono state rispettate le regole relative alla vita della società, quali ad esempio il gradimento o la prelazione.
Ultima Modifica: 24/07/2012