Chi ha contatti con l'ambiente economico inglese o americano, o anche solo con amici di quei Paesi, sente parlare di trust. Spesso i trust compaiono sulla stampa finanziaria (di recente, i trust per la gestione delle obbligazioni Cirio) e nella stampa di costume (il trust di Onassis, con le tante liti che ha originato). Grandi musei appartengono a trust, l'intero patrimonio dei Rockfeller è in trust, ma anche la massaia americana dispone delle proprie sostanze per mezzo di un trust, che si scrive da sola seguendo le indicazioni che le fornisce un cd a pochi dollari.
La società anglosassone, dunque, fa grande utilizzo di questo istituto. Ma quale è il motivo? E se il trust funziona così bene oltreoceano e oltremanica perché da noi se ne è fatto a meno fino a poco tempo fa? E perché, viceversa, adesso se ne parla tanto?
Il presidente del Tribunale di Genova, aprendo i lavori di un recente convegno sui trust, ha individuato nell'istituto uno strumento efficacissimo dell’autonomia privata; e questo, lasciando il linguaggio tecnico dei giuristi, significa che i trust permettono ai singoli di disporre dei propri interessi per mezzo delle regole che, di volta in volta, appaiono più opportune.
Noi siamo abituati a vederci calare dall'alto le regole che fa il Parlamento e appena siamo davanti a fenomeni nuovi entriamo in crisi di identità: chi non ricorda quante incertezza cagionò il leasing nel primo decennio della sua esistenza sul mercato italiano? I trust, invece, sono strutture aperte, nelle quali ciascuno cala il contenuto che desidera, ovviamente rispettando i principi di base, che sono pochi e chiari.
I principi base. Il primo principio è che i beni che si vogliono vincolare in trust escono dalla disponibilità di chi istituisce il trust.
Il secondo principio è che quei beni entrano nella disponibilità di un altro soggetto, che si chiama trustee, il quale li riceve per realizzare la finalità che gli è stata indicata.
Il terzo principio è che quei beni - pur trasferiti da chi istituisce il trust al trustee - non sono "suoi" a tutti gli effetti; per esempio, se egli muore, i suoi eredi non possono farli propri; se egli fallisce, quei beni non entrano nella massa fallimentare; e così via: è quell'effetto del trust che i giuristi chiamano <>.
Il quarto e ultimo principio è che il trustee è un <> in un senso diverso da quello per noi usuale. Per noi il fiduciario è una persona che fa quello che gli si dice di volta in volta, mentre il trustee fa quello che gli è stato detto nell'atto per mezzo del quale il trust è stato istituito: da quel momento, tocca a lui decidere cosa è meglio.
Questo non significa che chi ha istituito il trust si trovi dinanzi un nemico; al contrario, si trova dinanzi uno che seriamente pensa agli interessi delle persone che il trust vuole favorire e pensa in primo luogo a loro anche perché, diversamente dalla nostra visione dei rapporti fiduciari, il trustee risponde verso di loro, non verso chi lo ha nominato.
I trust interni. Fino a qualche anno fa non si parlava di trust in Italia. Ora si parla dei trust "interni" e con questa espressione, coniata da Maurizio Lupoi, professore all'Università di Genova (antesignano della diffusione dei trust in Italia), si intendono i trust istituiti e operanti in Italia che sono regolati da una legge straniera.
Sembra un assurdo: io trasferisco certi beni a una persona (italiana) nella quale ripongo fiducia o a una struttura (italiana) che professionalmente opera quale trustee, ma il nostro rapporto - il trust - è sottoposto a una legge straniera: la legge inglese, per esempio, o altra legge che conosce e disciplina i trust.
Questo assurdo è solo apparente, perché la legge permette di regolare rapporti fra italiani secondo una legge straniera. I trust interni, quindi, sono rapporti giuridici riguardanti soggetti e beni italiani che si avvalgono delle norme delle leggi che da secoli hanno a che fare con i trust.
Ultima Modifica: 14/03/2006