Il 17 agosto 2015 è la data di inedito ingresso del Certificato Successorio Europeo (Cse) nel nostro ordinamento, nell’ambito dell’entrata in vigore del Regolamento UE 650/2012, recante la riforma del diritto internazionale privato in materia di successione a causa di morte.
Il Cse è stato ideato per essere utilizzato:
a) dagli eredi e dai legatari che, in un altro Stato Ue, abbiano la necessità di far valere il fatto di vantare diritti in una successione mortis causa;
b) dagli esecutori testamentari o amministratori dell’eredità che, in un altro Stato Ue, abbiano la necessità di far valere i loro poteri come esecutori o amministratori di un’eredità.
In Italia, l’articolo 32 della legge 30 ottobre 2014, n. 161, ha disposto (in esecuzione del Regolamento 650/2012) che il Cse sia rilasciato da un notaio, su richiesta delle persone a ciò legittimate dal medesimo Regolamento 650/2012 (verso le risultanze del certificato notarile è peraltro ammesso reclamo al tribunale, in composizione collegiale, del luogo in cui è residente il notaio certificante).
Occorre rammentare innanzitutto che il Cse nasce per essere utilizzato quando la situazione conseguente a una successione ereditaria deve essere dimostrata in un Paese Ue diverso da quello la cui legge disciplina la vicenda successoria. Si pensi ad esempio al decesso dell’immaginario signor Giscard Riboud, cittadino francese, con residenza abituale in Italia, che fosse proprietario di un immobile in Germania: in questo caso (salvo che il de cuius, nel suo testamento, abbia optato – come è in effetti possibile – per l’applicazione della legge francese alla sua successione, in quanto legge del Paese di cui egli è cittadino), l’eredità del signor Riboud è disciplinata dalla legge italiana (trattandosi della legge vigente nel luogo di residenza abituale del de cuius); pertanto, ove occorra dimostrare in Germania (ad esempio, per darne pubblicità nei registri fondiari) a chi spetti la proprietà dell’immobile già appartenuto al signor Riboud, tale dimostrazione potrà d’ora innanzi esser data con l’utilizzo di un Cse rilasciato da un notaio italiano su istanza, ad esempio, del soggetto che il diritto successorio italiano indichi quale avente causa (in quanto erede o legatario) della proprietà immobiliare del signor Riboud sita in Germania.
Una delle questioni senz’altro più “spinose” che originano dalla nuova normativa sul Cse è, dunque, quella se esso possa utilizzarsi anche per finalità “interne” (e cioè se possa essere rilasciato da un notaio italiano con riguardo a una successione che non abbia profili di internazionalità, sia oggettivamente che soggettivamente, e che dunque esaurisca la sua portata nell’esclusivo ambito del nostro ordinamento): a differenza di quanto accade in altri sistemi giuridici (che prevedono istituti simili al Cse), nel nostro sistema manca infatti uno strumento – diverso da una sentenza che sia emanata a seguito di un contenzioso – per accertare la situazione giuridica che si verifica a seguito di una successione ereditaria; e, quindi, sarebbe indubbia l’utilità che deriverebbe (in termini di certezza del diritto e di efficienza delle procedure e dei traffici giuridici conseguenti a una successione ereditaria) dalla possibilità di utilizzare il Cse anche “Italia su Italia”.
Sul punto, va osservato che, formalmente, la normativa in commento ha in effetti come suo substrato la transnazionalità di una vicenda ereditaria e che, quindi, il presupposto del rilascio del Cse è senz’altro l’apertura di una successione con caratteristiche di internazionalità; ma che, sostanzialmente, non appare implausibile (anche in mancanza di un auspicabile intervento del legislatore sul punto) leggere la normativa sul Cse nel senso che essa in effetti non vieta il rilascio Cse anche per le successioni “interne”: e ciò non solo in quanto, nel concreto, il cittadino italiano (interessato a una successione per la quale il Cse non appaia rilasciabile) sarebbe svantaggiato rispetto al cittadino straniero che invece vi possa ricorrere, ma anche perché, più in generale, è principio oggi perfettamente acquisito quello secondo cui l’armonizzazione delle norme vigenti nell’Ue non può condurre a “discriminazioni alla rovescia” e cioè, nell’intento di armonizzare le norme di un Paese con quelle degli altri Paesi Ue, comportare discriminazioni proprio per i cittadini del Paese che opera questa armonizzazione. Lo hanno affermato a chiare lettere la Corte di Giustizia Ue nel caso Steen II, nella sentenza 16 giugno 1994 (nella causa C-132/93), la Corte Costituzionale italiana nelle sentenze n. 443/1997 e 341/2007, nonché lo stesso legislatore italiano nella legge 11/2005 (articolo 14-bis) e nella legge 234/2012 (articolo 32, comma 1, lett. i) e 53).
Ultima Modifica: 11/08/2015