Il patto di famiglia

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Il patto di famiglia

IL PATTO DI FAMIGLIA

1. Introduzione

Con l’introduzione nel nostro ordinamento del “patto di famiglia”, istituto da tempo atteso e caldeggiato, la trasmissione della ricchezza familiare, prevalentemente rappresentata dall’impresa e/o caratterizzata da una predominante dimensione mobiliare, può essere oggi programmata con lungimiranza.

Per lungo (forse troppo) tempo le norme che nel nostro ordinamento disciplinano le successioni mortis causa sono rimaste del tutto indifferenti rispetto alla qualità dei beni che formavano oggetto della successione. E questo nonostante fosse del tutto evidente il divario esistente tra una vecchia automobile, un appartamento in città, un’impresa individuale o un pacchetto azionario di controllo di una società quotata.

Questo disinteresse del nostro diritto successorio rispetto alla natura e al contenuto economico dei beni oggetto di una successione mortis causa era aggravato dal fatto che nel nostro Paese la presenza di imprese a carattere “familiare” è non solo elevata, ma diffusa addirittura all’interno del novero delle società quotate, e cioè là dove gli interessi non sono più circoscritti a pochi soggetti, ma coinvolgono il pubblico degli investitori.

Il punto fondamentale è che la scomparsa dell’imprenditore o del socio di riferimento porta spesso con sé problemi che possono compromettere il futuro dell’impresa. Non sempre, infatti, i discendenti dell’ imprenditore hanno le stesse capacità del loro predecessore, le stesse aspirazioni, le stesse felici intuizioni. Talvolta qualcuno di loro si rivela all’altezza del compito, ma viene ostacolato nella conduzione dell’impresa da quelli che non vi sono stati coinvolti e che, prima o poi, vogliono partecipare alla gestione pur senza averne le capacità. Altre volte la comune conduzione dell’impresa – anche tra discendenti che siano abili imprenditori – sfocia in una costante litigiosità generata da una divergenza sugli obiettivi da raggiungere, sui progetti da perseguire, sui metodi con i quali realizzarli.

Il risultato finale è tanto diffuso quanto scontato: la dissoluzione e la scomparsa dal mercato di quell’impresa creata dal de cuius e che in passato si era rivelata in grado di produrre e di diffondere ricchezza.

E’ in questo contesto che gli studiosi delle scienze economiche hanno sempre sottolineato che la continuità nella gestione dell’impresa ne rappresenta un valore fondamentale e che questo elemento, in un’impresa a matrice familiare, è fortemente influenzato anche (seppure non solo) dal rischio connesso al suo trapasso generazionale. La stessa Commissione europea (Raccomandazione 94/1069/CE) ha invitato gli Stati membri a sensibilizzare l’imprenditore ai problemi della successione e a indurlo a preparare l’operazione per tempo; nel contempo, ha esortato i legislatori nazionali a fare in modo che il diritto della famiglia e il diritto successorio non ostacolassero questa operazione.

Oggi, con l’introduzione del patto di famiglia, il rischio della dissoluzione dell’impresa per effetto della scomparsa del suo capo attuale è sicuramente molto ridimensionato.

Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che il “patto di famiglia” possa risolvere tutti i complessi problemi legati alla trasmissione della ricchezza familiare: il divieto dei patti successori e la disciplina della successione necessaria sono ancora ben presenti nel nostro ordinamento e, seppure in misura minore rispetto al passato, potrebbero ancora rappresentare degli ostacoli rispetto ad una strategia di trapasso generazionale dell’impresa familiare che possa sempre dirsi pienamente sicura ed efficace.

Resta comunque il fatto che – nonostante alcuni dubbi interpretativi che sarà compito dell’interprete risolvere in tempi brevi – il passo compiuto dal legislatore nella direzione di un diritto successorio più moderno e aperto alle nuove esigenze del sistema economico è sicuramente rilevante e da salutare con favore.


2. Il divieto dei patti successori e le disposizioni lesive della legittima.

I contratti tra familiari aventi ad oggetto la successione nell’ azienda di famiglia non sono dunque più vietati: la legge consente ora di stipulare il cosiddetto “patto di famiglia” e cioè di pattuire tra i membri di una certa famiglia la “destinazione” delle attività economiche di titolarità di un determinato soggetto appartenente alla famiglia medesima in vista della sua successione; e ciò senza che alcuna contestazione sia più sollevabile verso la “sistemazione” così organizzata.

Per comprendere bene la novità legislativa appena introdotta nel nostro ordinamento, occorre inquadrare il panorama giuridico nel quale questa innovazione si inserisce. Ebbene, il diritto italiano, in tema di destinazione dei beni per atto a titolo gratuito, detta i seguenti fondamentali principi:

a) la volontà testamentaria non può essere in alcun modo vincolata, perchè fino al suo “ultimo respiro” una persona fisica deve essere pienamente libera di disporre dei propri beni mediante testamento;

b) sono pertanto nulli i cosiddetti “patti successori” e cioè ogni atto o contratto con il quale taluno si impegni, durante la propria vita, a disporre (qualsiasi ne sia la modalità) dei propri beni dopo la propria morte oppure con il quale i possibili interessati da una futura successione di un soggetto attualmente vivente si accordino circa le sorti della trasmissione ereditaria di cui potrebbero essere beneficiari;

c) durante la propria vita, ogni persona fisica è pienamente libera di svolgere tutta l’attività giuridica che desidera compiere, ma con il limite che le disposizioni effettuate mediante donazione o testamento non possono ledere la cosiddetta “quota di legittima” spettante a certi stretti congiunti (il coniuge superstite, i discendenti e, in loro mancanza, gli ascendenti), detti appunto “legittimari”.

La quota di legittima è la quota che al legittimario spetta di conseguire, con riguardo al patrimonio di una persona defunta (ad esempio, se il defunto lascia il coniuge e due figli, la legittima è pari a un quarto del patrimonio del defunto per ciascuno dei predetti soggetti), e che si calcola applicando la percentuale prescritta dalla legge alla somma del valore del patrimonio lasciato dal defunto alla sua morte (il cosiddetto relictum) con il valore dei beni di cui il defunto abbia fatto donazione durante la propria vita (il cosiddetto donatum).

In questo panorama normativo, la trasmissione dell’impresa di famiglia ha sempre rappresentato un grandissimo problema, ancor più aggravato dalla considerazione che la quasi totalità delle imprese che operano nel nostro territorio sono di matrice familiare. Non solo quindi vi è il problema aziendalistico di stabilire quale sia, tra i possibili successori dell’imprenditore, quello più idoneo ad assumere le redini del comando dell’impresa; ma vi è anche il problema, a matrice prettamente giuridica, di trovare il modo di formare un accordo tra i vari membri della famiglia dell’ imprenditore al fine di ripartire in modo equo le sostanze dell’ imprenditore stesso (l’azienda da un lato e i restanti suoi beni dall’altro lato), al fine di soddisfare desideri e interessi di tutti i membri della sua famiglia.

Prima della riforma, il tema della organizzazione della successione di un imprenditore pertanto era quasi una mission impossible: come detto, da un lato, non era consentito stipulare patti, durante la vita dell’imprenditore, aventi ad oggetto le sorti dell’azienda di famiglia dopo la morte dell’imprenditore stesso; dall’altro, era spesso impossibile “compensare”, per mancanza di sostanze, le ragioni dei familiari non imprenditori rispetto all’attribuzione dell’azienda al figlio o ai figli dell’imprenditore ritenuti idonei a proseguire l’attività paterna.

La nuova legislazione sul patto di famiglia dispone oggi invece la liceità del contratto con il quale <<l’ imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti>>; è inoltre sancito che l’attributario dell’azienda (in ipotesi: il figlio dell’imprenditore) o delle partecipazioni “compensi” gli altri legittimari partecipanti alla stipula del patto (ad esempio: i fratelli del donatario e il coniuge del donante); a meno che a detta “compensazione” provveda direttamente colui che dona l’azienda, trasmettendo altri beni ai familiari non beneficiari della donazione dell’azienda.

La tematica che il legislatore ha inteso regolare è dunque quella dell’imprenditore individuale o del titolare di una “società familiare” che intenda assegnare la sua azienda a taluno dei suoi congiunti senza tuttavia voler effettuare discriminazioni tra costoro; e allora la scena che il legislatore si è figurato è quella dell’ attribuzione gratuita dell’azienda da parte del fondatore a favore di uno dei suoi figli (quello ritenuto meritevole e capace di proseguire l’attività aziendale) e della “compensazione” degli altri familiari mediante l’attribuzione di sostanze diverse dal compendio aziendale.


3. L’oggetto del patto di famiglia.

La norma sul patto di famiglia prefigura dunque i seguenti trasferimenti:

a) la donazione (di regola, da padre a figlio) di una azienda o di un pacchetto di partecipazioni societarie;

b) una attribuzione in denaro o in natura ai familiari non beneficiari dell’azienda a “compensazione” di quanto ricevuto in donazione.

Secondo la nuova legge, oggetto di attribuzione gratuita da parte dell’ imprenditore è pertanto o una azienda o un pacchetto di partecipazioni: ma si tratta di una espressione normativa non felice, che, a prima vista, dà adito ad una notevole incertezza interpretativa. Infatti, se è chiaro ciò a cui il legislatore vuole alludere, quando si riferisce alla donazione della azienda da parte dell’ imprenditore individuale, assai meno chiaro è il dettato normativo quando esso si riferisce alla attribuzione di partecipazioni societarie.

In quest’ultimo caso sembra invero che la legge abbia posto sullo stesso piano alcune situazioni che probabilmente il legislatore non voleva affatto equiparare; in altri termini, se la legge sul patto di famiglia intendeva sicuramente disciplinare il passaggio da padre a figlio della cosiddetta “società di famiglia” (e cioè quella nella quale il donante esplica la propria preponderante attività) meno sicura appare la conclusione per la quale la nuova legge, come invero si desume dal suo tenore letterale, abbia inteso contemplare anche il caso del passaggio da padre a figlio di qualsiasi altro pacchetto di partecipazioni,  e cioè diverso dalla quota posseduta della “società di famiglia”: si pensi ad esempio ad un pacchetto di azioni di una società quotata, acquistate per mere finalità di investimento o di speculazione.

Non si esce quindi dall’alternativa o di considerare il patto di famiglia estensibile a qualsiasi donazione di partecipazioni o limitarne la stipulabilità solo a quella donazione di quote/azioni che rappresentino la partecipazione al capitale sociale della società nella quale il donante esplica la propria attività imprenditoriale.

Se si aderisse alla prima soluzione, sarebbe oltremodo facile rivestire con l’involucro del patto di famiglia qualsiasi trasmissione patrimoniale: se Tizio è titolare di denaro, strumenti finanziari e immobili (cioè di “beni-patrimonio”, non inerenti, in altri termini, all’esercizio di alcuna gestione imprenditoriale), allora basterebbe conferirli in una società-cassaforte le cui quote siano poi fatte oggetto appunto di un patto di famiglia.

Questo approdo potrebbe apparire però eccessivo, se è vero, come è vero, che il legislatore ha voluto dedicare attenzione solo alla trasmissione generazionale delle aziende. E allora altro in tal caso non vi sarebbe da ritenere che le partecipazioni societarie di una persona fisica in tanto possano costituire oggetto di un patto di famiglia in quanto esse siano espressione di una attività imprenditoriale del loro titolare. Insomma, secondo quest’ultimo punto di vista, tutte le volte che una persona fisica sia proprietaria di partecipazioni che rappresentino un mero investimento, tali partecipazioni non potrebbero essere trasferite mediante un patto di famiglia; ogni qualvolta invece si trattasse di quote o azioni che costituiscano l’espressione di una attività imprenditoriale svolta dal donante, il patto di famiglia si rivela essere un valido strumento di trasmissione dell’impresa di padre in figlio.

4. I soggetti del patto di famiglia.

La disciplina in tema di patto di famiglia prevede espressamente che all’atto negoziale prendano parte <<l’ imprenditore>>, i discendenti ai quali egli intende trasferire l’azienda di famiglia (o le partecipazioni che la rappresentino) e <<anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’ imprenditore>> .

Vediamo dunque nel dettaglio chi sono i protagonisti del patto di famiglia.

a) L’imprenditore. Sebbene la legge definisca colui che trasferisce l’impresa di famiglia esclusivamente come <<imprenditore>>, questo termine va inteso in senso ampio, soprattutto se interpretato con riferimento alla complessiva disciplina del patto di famiglia.

Da un lato, infatti, solo nel nuovo articolo 768-bis del Codice civile, introdotto dalla legge di riforma, si distingue <<l’ imprenditore>> dalla figura del <<titolare di partecipazioni societarie>>, mentre nelle seguenti norme la legge fa riferimento alla figura dell’imprenditore tout court.

Dall’altro lato, considerando lo spirito della nuova legge – e cioè di permettere un trapasso generazionale non traumatico della ricchezza familiare costituita da un’attività di impresa – sarebbe riduttivo intendere il termine “imprenditore” in senso stretto, posto che così si limiterebbe oltremodo l’ambito di applicazione del patto di famiglia.

Infatti, il socio di maggioranza (o totalitario) di una società per azioni o a responsabilità limitata non è un tecnicamente un imprenditore (pur se “socialmente è considerato tale). Non solo; potrebbero realizzarsi addirittura ipotesi in cui anche il titolare di un’ azienda, genericamente qualificabile come imprenditore, non possa essere definito tale sotto il profilo giuridico: si pensi al caso di chi, avendo deciso di mettersi a riposo e in attesa che i figli portino a termine gli studi e seguano le orme paterne, abbia affittato per qualche tempo la propria azienda ad un terzo.

Nella nozione di “imprenditore” utilizzata nelle norme sul patto di famiglia va dunque compreso anche chi – pur non potendosi definire “imprenditore” da un punto di vista tecnico-giuridico – sia semplicemente titolare dell’azienda (senza essere imprenditore) o titolare delle partecipazioni sociali che la rappresentano.

b) I discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni. Gli assegnatari dell’impresa di famiglia (o delle partecipazioni sociali) possono essere esclusivamente i discendenti dell’imprenditore: dunque, non solo i figli, ma eventualmente anche i nipoti (e cioè i figli dei figli dell’imprenditore). Infatti, l’imprenditore ben potrebbe decidere di trasferire l’azienda (o la società di cui è “titolare”) al nipote che nell’attività manageriale abbia dato miglior prova del proprio padre, “saltando” così una generazione nella titolarità e nell’amministrazione dell’impresa di famiglia.

La nuova norma è dunque assai chiara sul punto di chi possa succedere all’imprenditore nella titolarità dell’azienda mediante il patto di famiglia (e cioè i soli discendenti), escludendo dunque che possano divenire assegnatari soggetti diversi come, ad esempio, il coniuge (che deve partecipare all’atto, ma non in qualità di assegnatario) o i fratelli dell’ imprenditore.

c) I partecipanti al patto non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni. Oltre all’imprenditore e agli assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni sociali) al patto di famiglia devono prendere parte anche i soggetti che sarebbero legittimari se, al momento della stipulazione del patto, si aprisse la successione “nel patrimonio” dell’imprenditore (questa è invero l’espressione assai atecnica che il legislatore ha usato, che dunque deve più correttamente intendersi come “la successione dell’imprenditore”).

La previsione della necessità di partecipazione all’atto di tutti i legittimari deriva dalla ragione che il patto di famiglia è configurato come una sorta di “anticipo” della distribuzione del patrimonio dell’imprenditore rispetto al momento dell’ apertura della successione.

Dunque, oltre al cedente e agli assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni) al patto di famiglia devono prendere parte:

a) il coniuge, anche se legalmente separato e sempre che la separazione non gli sia stata addebitata;

b) i figli (sia legittimi sia naturali) e, qualora uno di questi non fosse più in vita, i suoi discendenti;

c) gli eventuali figli legittimati o adottivi e, in loro mancanza,  i loro discendenti.

Va notato che nel caso in cui l’imprenditore decida di “saltare” una generazione, attribuendo l’azienda o le partecipazioni sociali ai propri nipoti anziché ai propri figli, questi ultimi (genitori di colui o di coloro che siano stati scelti per succedere alla guida dell’impresa di famiglia) devono partecipare alla stipulazione del patto di famiglia in qualità di legittimari non assegnatari.

d) Familiari minorenni o incapaci. La normativa sul patto di famiglia non prende in considerazione il caso in cui uno dei legittimari – necessariamente chiamato a partecipare all’atto – sia ancora minorenne, e dunque legalmente incapace d’agire.

L’ipotesi non è così rara: si pensi ad esempio al caso in cui l’ imprenditore si sia sposato più di una volta e abbia avuto figli anche con l’ultima moglie, in ipotesi in epoca recente; o ancora che – pur in assenza di nuove nozze – l’imprenditore abbia avuto (e riconosciuto) figli naturali da una compagna più giovane con la quale conviva. In questi casi accade spesso che i discendenti dell’imprenditore abbiano tra loro un divario anche di venti o trent’anni di età.

Ebbene, può darsi che, in questo contesto, l’imprenditore desideri comunque programmare la trasmissione della propria azienda, magari a favore dei figli di “primo letto” dei quali abbia già avuto la possibilità di saggiare ed apprezzare le capacità gestionali (capacità che, al contrario, non sarebbe neppure in grado di immaginare rispetto ai propri figli più giovani, forse ancora impegnati sui banchi di scuola).

L’importanza e la portata, anche economica, degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione, per il compimento dei quali la legge richiede la <<necessità o utilità evidente del figlio>>; e l’autorizzazione preventiva del giudice tutelare.

Ulteriore quesito da risolvere è se tra il minore ed il suo rappresentante legale ricorra o meno un conflitto di interessi.

Almeno teoricamente questo conflitto non si può escludere tra l’imprenditore-cedente ed il minore: la rappresentanza del minore dovrebbe dunque concentrarsi in capo all’altro genitore (secondo quanto stabilisce l’articolo 320 del Codice civile). Se l’altro genitore non è un legittimario (per esempio, in quanto semplice convivente “more uxorio”) la questione pare risolta. In caso diverso andrà attentamente vagliata anche la posizione del genitore legittimario che debba intervenire nell’ atto nella doppia veste di coniuge e di rappresentante legale del minore: se si dovesse ravvisare, anche solo in via eventuale, un conflitto di interessi, sarebbe necessario domandare al giudice tutelare la nomina di un curatore speciale affinché intervenga nella stipulazione del patto di famiglia. Il punto è delicato: nel caso di inosservanza della disciplina in questione, la conseguenza è infatti quella dell’annullabilità del patto.

Non è infine da escludere che uno dei legittimari chiamati ad intervenire nella stipulazione del patto di famiglia versi in stato di incapacità legale. L’interdizione (incapacità assoluta) o l’inabilitazione (incapacità relativa) del legittimario – dichiarata dal giudice in conseguenza di una più o meno marcata incapacità di provvedere a gestire autonomamente i propri interessi (patrimoniali e non) – richiede alcuni adempimenti che devono precedere la stipulazione del patto di famiglia.

Qualora il legittimario sia un interdetto, al patto di famiglia prenderà parte il tutore, il quale deve però essere munito dell’autorizzazione giudiziale, data la natura di straordinaria amministrazione dell’atto.

Analoga è la soluzione nel caso dell’inabilitato, anche se in questo caso, oltre all’autorizzazione del giudice, è necessario che al patto di famiglia intervenga sia il legittimario incapace sia il suo curatore, che dovrà prestare il proprio consenso al compimento dell’atto.

Infine, quando il tutore o il curatore sia destinato a prendere parte al patto di famiglia in prima persona (in qualità di imprenditore-cedente o di assegnatario dell’azienda o come legittimario non assegnatario) si pone il problema del conflitto di interessi, che rende necessaria la nomina di un curatore speciale da parte del giudice.

5. Le operazioni da compiere.

La nuova disciplina del patto di famiglia prevede una pluralità di operazioni per realizzare lo scopo della trasmissione generazionale dell’ azienda di famiglia:

a) il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni al capitale sociale da parte dell’imprenditore ad alcuno dei suoi discendenti;

b) la liquidazione degli altri familiari non continuatori dell’impresa di famiglia da parte dell’imprenditore che dona l’azienda oppure da parte dei discendenti che hanno conseguito l’attribuzione dell’azienda.

Perchè dunque si abbia un “patto di famiglia” nel senso voluto dalla nuova legislazione appena introdotta, occorre che:

* il disponente sia titolare di una attività d’impresa individuale o di un pacchetto di partecipazioni societarie;

* il beneficiario o i beneficiari dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni siano soggetti qualificabili come “discendenti” del disponente (e che quindi si tratti dei suoi figli, legittimi, naturali o adottivi oppure dei suoi nipoti e cioè dei figli dei suoi figli); altri famigliari, quali ad esempio i genitori, il coniuge e i fratelli del disponente non sono pertanto soggetti ritenuti dalla legge idonei alla stipula del patto di famiglia;

* al patto partecipino coloro che sarebbero qualificabili come legittimari del disponente se egli morisse nello stesso momento in cui il patto di famiglia viene stipulato: si tratta del coniuge, dei suoi figli (e, in caso di loro premorienza, dei discendenti ulteriori) e degli ascendenti, cioè i genitori se mancano i figli; il patto di famiglia quindi non coinvolge i fratelli dell’ imprenditore, il suo convivente, e nemmeno zii, cugini e altri parenti.

La nuova disciplina del patto di famiglia cerca infatti di realizzare lo scopo di favorire il passaggio generazionale delle aziende familiari con il minor sacrificio possibile dei familiari non partecipi dell’attività aziendale; pertanto, essa è caratterizzata dalla ricerca del trattamento meno sperequativo possibile tra il familiare destinatario dell’azienda e gli altri suoi parenti.

La legge dunque prevede che l’attribuzione dell’ azienda sia “compensata” con un’attribuzione in denaro o in natura a favore di coloro che sarebbero i legittimari dell’imprenditore  (a meno che, ovviamente, costoro non vi rinuncino in tutto o in parte).

L’attribuzione ai familiari non beneficiari dell’azienda o delle partecipazioni può essere effettuata sia da colui che dona l’azienda sia dal discendente dell’imprenditore che beneficia dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni: limitare a questo ultimi il compito di effettuare questa compensazione sarebbe una soluzione praticamente irrealizzabile nella maggior parte dei casi; invero, di regola, l’età dei beneficiari dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni è piuttosto giovane e il loro personale patrimonio è tendenzialmente privo delle risorse sufficienti per far fronte alle esigenze di “compensazione” dei familiari non beneficiari dell’ attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni; infine, il valore dell’azienda è spesso assai elevato e una “compensazione” che soddisfi le esigenze dei familiari non beneficiari richiede la disponibilità di una somma di notevole entità, che spesso nemmeno vi è nel patrimonio dell’imprenditore donante (e tanto meno la si ritrova nel patrimonio del discendente donatario).

Si tratta spesso quindi di reperire le risorse per consentire la stipulazione del patto di famiglia e quindi per permettere la soddisfazione anche dei familiari non imprenditori.  La necessità è pertanto quella di finanziare il discendente dell’ imprenditore, beneficiario del trasferimento dell’ azienda: ora, o si ipotizza che costui monetizzi qualche cespite aziendale (o personale) e, con il ricavato da questo “spezzatino”, liquidi il dovuto ai familiari non imprenditori; o si ricorre al sistema bancario, ambito ove entra in campo il tema delle garanzie da concedere per ottenere credito.

La soluzione più facile è quella di offrire ipoteca su beni personali o aziendali oppure di concedere il pegno sulle partecipazioni al capitale sociale dell’impresa di famiglia. Ma si possono ipotizzare anche soluzioni più complesse utilizzando il classico schema delle operazioni di leveraged buy out, e quindi:

a) costituzione di una nuova società (la cosiddetta newco) che viene indebitata mediante la concessione di un finanziamento bancario;

b) l’acquisto da parte di newco del capitale sociale della società-bersaglio (la cosiddetta target, e cioè l’azienda di famiglia) utilizzando, quale prezzo (da corrispondere al discendente donatario delle partecipazioni), il ricavo dell’erogazione del finanziamento bancario;

c) la concessione in pegno, dalla newco alla banca, delle partecipazioni nella target;

d) la fusione di target in newco, di modo che il flusso finanziario necessario a pagare le rate del mutuo provengano dalla stessa attività di target.

Con il prezzo così percepito per la vendita delle sue partecipazioni, il discendente donatario può alfine soddisfare le pretese economiche degli altri legittimari dell’imprenditore donante.

6. I problemi da risolvere.

Il patto di famiglia appare, nella struttura delineata dal legislatore, un’operazione relativamente semplice, consistente in un unico atto negoziale al quale devono prendere parte, oltre all’imprenditore ed al suo “delfino”, tutti coloro che sarebbero legittimari qualora la successione si aprisse in quel momento.

La prassi tuttavia sembra testimoniare che, in alcuni casi, l’operazione del trapasso generazionale della ricchezza familiare potrebbe essere più complessa ed articolata rispetto ad un isolato e “semplice” patto di famiglia.

Un primo aspetto da non trascurare è quello della futura gestione dell’azienda trasmessa con il patto di famiglia. E’ infatti ragionevole ipotizzare che l’imprenditore che trasferisce il proprio “gioiello” al figlio più idoneo a succedergli alla guida dell’impresa non sia un novantenne ormai disinteressato al mondo degli affari, ma un attempato imprenditore con l’esperienza e la determinazione che gli hanno permesso di creare e gestire la propria ricchezza.

Questo induce a credere che – anche dopo la cessione – l’imprenditore voglia continuare, quantomeno per un certo periodo, ad avere un ruolo più o meno centrale nell’amministrazione dell’azienda che formi oggetto della cessione. Ecco allora la possibilità che, accanto al patto di famiglia, nascano accordi “a latere” destinati a garantire al cedente un effettivo ruolo di gestione all’interno dell’impresa, accordi che, a seconda dei casi, potranno prendere la forma di un patto parasociale o di altre figure negoziali.

Altro elemento di un certo rilievo nell’ambito del patto di famiglia è assunto dal valore dell’azienda (o delle partecipazioni) oggetto della cessione, posto che sembra essere proprio questa la base di calcolo della somma dovuta dall’assegnatario agli altri legittimari. A monte della stipulazione del patto di famiglia potrebbe allora inserirsi una valutazione dell’azienda o delle partecipazioni sociali da parte di un esperto; la perizia, infatti, potrebbe rendersi necessaria qualora tra i contraenti non vi fosse concordia sul valore da attribuire all’azienda (o alle partecipazioni) oggetto del patto da stipulare o anche solo più semplicemente per rendere l’intera operazione più sicura, garantendo al patto una maggiore stabilità nel tempo anche sotto il profilo delle impugnative contemplate dalla legge.

7. I legittimari sopravvenuti.

La nuova legge dispone, quale requisito essenziale del patto di famiglia, che ad esso, oltre all’imprenditore, <<devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore>> (i legittimari dell’imprenditore sono il coniuge e i suoi figli; se i figli siano premorti, legittimari divengono i loro discendenti, cioè i nipoti dell’imprenditore; in mancanza di discendenti divengono legittimari anche gli ascendenti dell’imprenditore e cioè i suoi genitori e i suoi nonni): è quindi da ritenere innanzitutto che il patto di famiglia non sia valido (cioè sia nullo) in mancanza di questa totalitaria partecipazione.

Senza voler pensare alla difficoltà pratica che, in taluni casi, si potrebbe presentare per il fatto che vi sia un legittimario non noto agli altri partecipi del patto (è il caso del figlio naturale dell’imprenditore, da lui riconosciuto all’insaputa degli altri suoi familiari), ci si deve occupare del più realistico caso in cui, in epoca posteriore alla stipula del patto di famiglia, sopravvengano soggetti che assumano la qualifica di legittimari al momento del decesso dell’imprenditore. Si pensi al caso che, successivamente alla stipula del patto l’imprenditore celibe o vedovo si sposi lasciando a sè superstite il coniuge; oppure che l’imprenditore coniugato divorzi e contragga un nuovo matrimonio; oppure infine che l’ imprenditore più semplicemente abbia nuovi figli (legittimi, naturali, adottivi).

Quando dunque l’imprenditore muore, costoro si trovano sfavoriti per non aver partecipato alla stipula del patto di famiglia: e allora la nuova legge dispone che costoro possono chiedere ai beneficiari del patto (il discendente assegnatario dell’ impresa e gli altri familiari che abbiano avuto attribuzioni “in compensazione”) il pagamento di una somma pari alla quota che sarebbe loro spettata se avessero partecipato al patto, aumentata degli interessi legali.

Ora, se a livello di principio è da giudicare senz’altro opportuno che il legislatore abbia affrontato questa tematica e ne abbia imposto la soluzione nei termini appena accennati, l’ effettuazione pratica di queste sistemazioni non sembra di facile gestione, anche perchè la disciplina che il legislatore ha dettato è assai carente e lacunosa.

Il primo problema è ovviamente quello di determinare la base di calcolo della quota spettante al legittimario sopravvenuto (si pensi ad esempio al coniuge dell’imprenditore cui in ipotesi spetti la quota di legittima di un quarto): è facile calcolare, dopo un numero di anni che può anche essere assai alto, il valore dell’azienda donata all’epoca in cui fu donata (e quindi nella consistenza che essa allora aveva) ? e quale criterio va utilizzato, tra i molti metodi di valutazione aziendale disponibili, per determinare il valore della specifica azienda che venne fatta oggetto del patto di famiglia ?

Altro non indifferente problema è quello di determinare chi sia il debitore del familiare sopravvenuto: per regola generale, pluralità di debitori significa solidarietà (articolo 1292 del codice civile) e quindi possibilità del creditore di escuterne, “a piacimento”, uno qualsiasi; ma, trattandosi di pagamenti che possono essere di notevole entità, in ipotesi da effettuare anche dopo decine di anni, chi partecipa ad un patto di famiglia deve precostituirsi e mantenere, vita natural durante, una corrispondente provvista ? La risposta è positiva, ma è pure imbarazzante.

8. L’invalidità del patto di famiglia.

Il tema dell’invalidità del patto di famiglia è uno di quegli ambiti nei quali è maggiormente evidente la scarsa attenzione che il legislatore ha avuto nell’elaborare le nuove norme, in modo che non avessero difetti tecnici e fossero comprensibili, esaustive e adeguate rispetto allo scopo perseguito.

Il nuovo articolo 768-quinquies del codice civile, introdotto dalla riforma, dispone infatti che <<il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti>> del codice civile. Questa norma è francamente incomprensibile: invero, che il patto di famiglia, come qualsiasi altro negozio giuridico, sia annullabile se uno dei contraenti abbia il proprio consenso viziato da errore, violenza e dolo (gli articoli 1427 e seguenti disciplinano appunto l’annullabilità del contratto concluso in presenza di vizi del consenso) non c’era bisogno di affermarlo esplicitamente. Nessuno avrebbe mai potuto dubitare dell’applicabilità delle norme dettate dalla disciplina della formazione del contratto su errore, violenza e dolo pure al patto di famiglia, ove uno dei contraenti abbia appunto avuto il proprio consenso condizionato da errore o “estorto” con dolo o violenza.

Altrettanto incomprensibile è inoltre il secondo comma del successivo articolo 768-sexies, secondo il quale <<l’ inosservanza delle disposizioni del primo comma>> (quello che dispone la “compensazione” dei legittimari sopravvenuti, non partecipanti al patto) <<costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’ articolo 768-quinquies>>.

Ora, come detto, l’articolo 768-quinquies dispone inutilmente, anche per il patto di famiglia, l’applicabilità della disciplina sui vizi del consenso contenuta nella parte del codice civile dedicata al contratto “in generale”; e quindi non si capisce affatto cosa la nuova legge voglia dire quando richiama l’ applicabilità della disciplina dei vizi del consenso al caso che la “compensazione” dei legittimari sopravvenuti non abbia buon fine (tematica che, come noto, con i vizi del consenso, non c’entra proprio nulla).

Forse il legislatore (ma si tratta di andare con ciò ben al di là della lettera della legge) ha voluto significare che il buon fine dell’accordo tra gli originari firmatari del patto e i legittimari sopravvenuti costituisce una causa di annullabilità del contratto (tanto quanto lo sono l’errore, la violenza e il dolo che abbiano viziato il consenso di uno dei contraenti). Ma, se così fosse, e cioè se si avesse una previsione legislativa mediante la quale l’inadempimento di un obbligo venisse “convertito” in una causa di annullabilità del contratto, si avrebbe un momento di notevole stupore:

a) non solo perchè sarebbe il primo caso di annullabilità del nostro ordinamento non connesso a vizi da cui il contratto è affetto al momento della formazione, ma a eventi posteriori;

b) ma anche perchè questa “conversione” di un inadempimento in una causa di invalidità sarebbe una mostruosità giuridica: dovrebbe invero pensarsi a un contratto che nasce valido e che anche dopo decine di anni potrebbe essere annullato; così come bisognerebbe interrogarsi, in tal caso, sulla sorte dei beni oggetto del patto di famiglia (e poi eventualmente messi in circolazione dai loro legittimi beneficiari) che appunto subisca un’azione di annullamento.

 

Ultima Modifica: 30/03/2006