I contratti tra familiari aventi ad oggetto la successione nell’ azienda di famiglia non sono dunque più vietati: la legge consente ora di stipulare il cosiddetto “patto di famiglia” e cioè di pattuire tra i membri di una certa famiglia la “destinazione” delle attività economiche di titolarità di un determinato soggetto appartenente alla famiglia medesima in vista della sua successione; e ciò senza che alcuna contestazione sia più sollevabile verso la “sistemazione” così organizzata.
Per comprendere bene la novità legislativa appena introdotta nel nostro ordinamento, occorre inquadrare il panorama giuridico nel quale questa innovazione si inserisce. Ebbene, il diritto italiano, in tema di destinazione dei beni per atto a titolo gratuito, detta i seguenti fondamentali principi:
a) la volontà testamentaria non può essere in alcun modo vincolata, perchè fino al suo “ultimo respiro” una persona fisica deve essere pienamente libera di disporre dei propri beni mediante testamento;
b) sono pertanto nulli i cosiddetti “patti successori” e cioè ogni atto o contratto con il quale taluno si impegni, durante la propria vita, a disporre (qualsiasi ne sia la modalità) dei propri beni dopo la propria morte oppure con il quale i possibili interessati da una futura successione di un soggetto attualmente vivente si accordino circa le sorti della trasmissione ereditaria di cui potrebbero essere beneficiari;
c) durante la propria vita, ogni persona fisica è pienamente libera di svolgere tutta l’attività giuridica che desidera compiere, ma con il limite che le disposizioni effettuate mediante donazione o testamento non possono ledere la cosiddetta “quota di legittima” spettante a certi stretti congiunti (il coniuge superstite, i discendenti e, in loro mancanza, gli ascendenti), detti appunto “legittimari”.
La quota di legittima è la quota che al legittimario spetta di conseguire, con riguardo al patrimonio di una persona defunta (ad esempio, se il defunto lascia il coniuge e due figli, la legittima è pari a un quarto del patrimonio del defunto per ciascuno dei predetti soggetti), e che si calcola applicando la percentuale prescritta dalla legge alla somma del valore del patrimonio lasciato dal defunto alla sua morte (il cosiddetto relictum) con il valore dei beni di cui il defunto abbia fatto donazione durante la propria vita (il cosiddetto donatum).
In questo panorama normativo, la trasmissione dell’impresa di famiglia ha sempre rappresentato un grandissimo problema, ancor più aggravato dalla considerazione che la quasi totalità delle imprese che operano nel nostro territorio sono di matrice familiare. Non solo quindi vi è il problema aziendalistico di stabilire quale sia, tra i possibili successori dell’imprenditore, quello più idoneo ad assumere le redini del comando dell’impresa; ma vi è anche il problema, a matrice prettamente giuridica, di trovare il modo di formare un accordo tra i vari membri della famiglia dell’ imprenditore al fine di ripartire in modo equo le sostanze dell’ imprenditore stesso (l’azienda da un lato e i restanti suoi beni dall’altro lato), al fine di soddisfare desideri e interessi di tutti i membri della sua famiglia.
Prima della riforma, il tema della organizzazione della successione di un imprenditore pertanto era quasi una mission impossible: come detto, da un lato, non era consentito stipulare patti, durante la vita dell’imprenditore, aventi ad oggetto le sorti dell’azienda di famiglia dopo la morte dell’imprenditore stesso; dall’altro, era spesso impossibile “compensare”, per mancanza di sostanze, le ragioni dei familiari non imprenditori rispetto all’attribuzione dell’azienda al figlio o ai figli dell’imprenditore ritenuti idonei a proseguire l’attività paterna.
La nuova legislazione sul patto di famiglia dispone oggi invece la liceità del contratto con il quale <<l’ imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti>>; è inoltre sancito che l’attributario dell’azienda (in ipotesi: il figlio dell’imprenditore) o delle partecipazioni “compensi” gli altri legittimari partecipanti alla stipula del patto (ad esempio: i fratelli del donatario e il coniuge del donante); a meno che a detta “compensazione” provveda direttamente colui che dona l’azienda, trasmettendo altri beni ai familiari non beneficiari della donazione dell’azienda.
La tematica che il legislatore ha inteso regolare è dunque quella dell’imprenditore individuale o del titolare di una “società familiare” che intenda assegnare la sua azienda a taluno dei suoi congiunti senza tuttavia voler effettuare discriminazioni tra costoro; e allora la scena che il legislatore si è figurato è quella dell’ attribuzione gratuita dell’azienda da parte del fondatore a favore di uno dei suoi figli (quello ritenuto meritevole e capace di proseguire l’attività aziendale) e della “compensazione” degli altri familiari mediante l’attribuzione di sostanze diverse dal compendio aziendale.
Ultima Modifica: 21/03/2006