Il tema dell’invalidità del patto di famiglia è uno di quegli ambiti nei quali è maggiormente evidente la scarsa attenzione che il legislatore ha avuto nell’elaborare le nuove norme, in modo che non avessero difetti tecnici e fossero comprensibili, esaustive e adeguate rispetto allo scopo perseguito.
Il nuovo articolo 768-quinquies del codice civile, introdotto dalla riforma, dispone infatti che <<il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti >> del codice civile. Questa norma è francamente incomprensibile: invero, che il patto di famiglia, come qualsiasi altro negozio giuridico, sia annullabile se uno dei contraenti abbia il proprio consenso viziato da errore, violenza e dolo (gli articoli 1427 e seguenti disciplinano appunto l’annullabilità del contratto concluso in presenza di vizi del consenso) non c’era bisogno di affermarlo esplicitamente. Nessuno avrebbe mai potuto dubitare dell’applicabilità delle norme dettate dalla disciplina della formazione del contratto su errore, violenza e dolo pure al patto di famiglia, ove uno dei contraenti abbia appunto avuto il proprio consenso condizionato da errore o “estorto” con dolo o violenza.
Altrettanto incomprensibile è inoltre il secondo comma del successivo articolo 768-sexies, secondo il quale <<l’ inosservanza delle disposizioni del primo comma>> (quello che dispone la “compensazione” dei legittimari sopravvenuti, non partecipanti al patto) <<costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’ articolo 768-quinquies>>.
Ora, come detto, l’articolo 768-quinquies dispone inutilmente, anche per il patto di famiglia, l’applicabilità della disciplina sui vizi del consenso contenuta nella parte del codice civile dedicata al contratto “in generale”; e quindi non si capisce affatto cosa la nuova legge voglia dire quando richiama l’ applicabilità della disciplina dei vizi del consenso al caso che la “compensazione” dei legittimari sopravvenuti non abbia buon fine (tematica che, come noto, con i vizi del consenso, non c’entra proprio nulla).
Forse il legislatore (ma si tratta di andare con ciò ben al di là della lettera della legge) ha voluto significare che il buon fine dell’accordo tra gli originari firmatari del patto e i legittimari sopravvenuti costituisce una causa di annullabilità del contratto (tanto quanto lo sono l’errore, la violenza e il dolo che abbiano viziato il consenso di uno dei contraenti). Ma, se così fosse, e cioè se si avesse una previsione legislativa mediante la quale l’inadempimento di un obbligo venisse “convertito” in una causa di annullabilità del contratto, si avrebbe un momento di notevole stupore:
a) non solo perchè sarebbe il primo caso di annullabilità del nostro ordinamento non connesso a vizi da cui il contratto è affetto al momento della formazione, ma a eventi posteriori;
b) ma anche perchè questa “conversione” di un inadempimento in una causa di invalidità sarebbe una mostruosità giuridica: dovrebbe invero pensarsi a un contratto che nasce valido e che anche dopo decine di anni potrebbe essere annullato; così come bisognerebbe interrogarsi, in tal caso, sulla sorte dei beni oggetto del patto di famiglia (e poi eventualmente messi in circolazione dai loro legittimi beneficiari) che appunto subisca un’azione di annullamento.
Ultima Modifica: 21/03/2006