Se il trust non può certo prescindere dalla volontà del disponente che lo istituisce, il ruolo centrale del trust comunque spetta senz’altro al trustee, e cioè al soggetto che il disponente designa al fine di perseguire lo scopo per il quale il trust viene istituito e per renderlo proprietario dei beni del trust.
Il trustee è l’unico dei soggetti del trust il cui nome non è stato tradotto dall’inglese: infatti, il termine settlor è stato tradotto con "disponente", il termine beneficiary è stato tradotto con "beneficiario", il termine protector è stato tradotto con "guardiano".
Ma il trustee è rimasto, appunto, il trustee; e si tratta di una considerazione non banale, perché offre lo spunto per una precisazione importante circa il suo ruolo nel trust.
Infatti, se il termine trustee fosse stato tradotto con l’ espressione "fiduciario", si sarebbe trattato di una traduzione "per difetto", in quanto, nel nostro ordinamento, il termine fiduciario designa un soggetto che bensì si intesta i beni fiduciati, ma come mero "prestanome", in quanto la proprietà sostanziale dei beni oggetto del contratto fiduciario rimane in capo al fiduciante, mentre il trustee diviene effettivo proprietario dei beni del trust (seppur con il dovere di finalizzarli al perseguimento dello scopo del trust).
Nemmeno sarebbe stata premiante la traduzione con il termine "mandatario": a parte che i beni oggetto del mandato solo di rado sono intestati al mandatario (caso nel quale andrebbe comunque riproposto quanto appena detto parlando della fiducia, poiché anche il mandatario ha una intestazione meramente formale dei beni oggetto del mandato), il mandatario ha indubbiamente il sapore del mero esecutore mentre il proprium del trustee è quell’atmosfera di indipendenza, autonomia e discrezionalità che indiscutibilmente ne connotano la funzione e la cui eventuale mancanza, come già detto nella pagina precedente, rischia di minare l’essenza stessa del trust, determinandone una sua possibile riqualificazione in termini, appunto, di mandato (con effetto catastrofico per chi avesse puntato sull’istituzione del trust per segregare in capo al trustee i beni oggetto del trust e quindi per renderli impermeabili rispetto ai creditori del disponente).
Infatti, dato che il trustee consegue la proprietà stessa dei beni del trust, si compie con ciò un duplice effetto "segregativo".
In altre parole:
• da un lato, i beni attribuiti al trust fuoriescono dalla sfera giuridica del disponente per entrare in quella del trustee, con la conseguenza che i creditori del disponente perdono l’ opportunità di soddisfare le loro ragioni sui beni confluiti nel trust;
• d’altro lato, i beni del trust divengono bensì di proprietà del trustee, ma non vanno a "confondersi" con il restante suo patrimonio personale: se egli sia coniugato in regime di comunione legale dei beni, essi non divengono comuni con il suo coniuge; se il trustee muoia, essi non divengono parte della massa patrimoniale che egli trasmette ai suoi eredi; ancora, i creditori personali del trustee non possono trovare soddisfazione delle loro ragioni sui beni del trust (viceversa, ovviamente, i creditori che abbiano maturato le loro ragioni di credito in conseguenza della gestione del trust, ben possono soddisfarsi sui beni del trust, ma non sui beni propri del trustee, diversi da quelli del trust).
Dovrebbe essere dunque assai chiaro, a questo punto, che, per beneficiare del descritto duplice effetto segregativo, il trust deve essere istituito con la massima professionalità e con tutte le occorrenti caratteristiche: in particolare, con regole istitutive che non ne rivelino la palese simulazione, con un trustee adeguato al caso concreto, non succube del disponente ma dotato delle maggiore autonomia possibile e (salvo i casi in cui è fisiologico che il trustee sia persona "vicina" agli altri soggetti del trust) dotato di elevato standing professionale, per derivare ragioni di effettività del trust anche dalla sua capacità di gestione e dalle sue doti di autonomia, indipendenza e discrezionalità.
Ultima Modifica: 13/12/2010